Augmented Digital Writing, questo il titolo del mio contributo al volume Digital Writing, a cura di Alessandra Anichini e del Digital Writing Lab, un gruppo di ricerca costituito all’interno del Communication Strategies Lab dell’Università di Firenze.
“Augmented Digital Writing” inteso come dimensione “estesa” dell’authoring digitale, in chiave di contaminazione digitale dell’esperienza e della realtà quotidiana; nella convinzione che l’ecosistema in cui siamo immersi è già integralmente augmented e che le procedure di augmentation, al di là dei limiti dei dispositivi, delle applicazioni pratiche e degli “effetti”, siano mature al punto da passare inosservate mentre l’attenzione viene catturata dalla tendenza alla “trasparenza” di dispositivi sempre più diafani, portable, wearable… dal monitor al casco, dal display mobile agli occhiali che aderiscono ad ogni angolo e latitudine della nostra quotidianità.
Al centro non si sono dunque i dispositivi, ma inedite dimensioni di scrittura a cui permettono di partecipare, ognuno a partire dal proprio paradigma (visivo, acustico, domani tattile…), vere e proprie interfacce con la realtà, con cui scriviamo i ritmi della nostra quotidianità, gli spazi del nostro agire sociale, la dimensione e il raggio d’azione della nostra professionalità, in maniera pervasiva e attestata su straordinari livelli di concretezza: creando connessioni, capitali e strutture, socialità, denaro e relazioni, comunicazioni, emozioni e spazi abitativi…
Mi fermo, ma è chiaro che siamo nel solco delle “realtà aumentate” (di cui ci siamo occupati, appunto, nel volume Realtà Aumentate), al plurale, comprendendovi tecnologie dell’Augmented Reality, ma anche Smart Cities, Internet of Things, Big data e tutto quanto ha a che vedere con l’universo digitale, non ridotto alla sua dimensione informatica. Augmented Digital Writing come un invito a prendere coscienza della dimensione digital che abbiamo l’opportunità di abitare e in cui esercitiamo la nostra authorship quotidiana, a partire dal nostro puro e semplice esserci.
Solo a partire da questa presa di coscienza potremo inquadrare correttamente l’argomento Digital Writing, senza appiattirci sulle suites di authoring digitale o sulle piattaforme di self publishing, più o meno social che siano, con la loro illusione creativa (oggi siamo tutti creatori di contenuti, e con che numeri…) in cui di fatto la nostra authorship finisce per essere demandata ai nuovissimi editor e alle nuovissime funzionalità precostituite in appositi template che aumentano la nostra produttività: in tal caso basti il tasto F1…
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Per tutti questi motivi considero preziosa l’opportunità di chiudere questo volume con una proposta di “rilettura” delle condizioni di possibilità dischiuse dalla scrittura digitale, per ragionare con il lettore su come potremmo/dovremmo scrivere… as we may write, appunto, per parafrasare la lezione di uno dei padri del Digital Writing: Vannevar Bush che con As We May Think nel 1945 ci invitava a cogliere l’occasione digitale.
È quello che abbiamo tentato di fare; nella convinzione che si tratti di una partita ancora aperta:
E penso all’invito di uno dei luoghi più suggestivi de La comunicazione generativa, che fa riferimento proprio all’occasione digitale in cui siamo immersi, destinatari e autori a un tempo:
“Se naturale e artificiale sconvolgono nella sostanza i termini della loro storica relazione, se abbiamo la possibilità d’esercitare le nostre capacità immaginifiche utilizzando cose reali, se l’immaginario spezza la cornice di un palcoscenico, l’oscurità di una sala cinematografica, il formato e i caratteri di un’opera stampata; se ciò che immaginiamo prende a interagire con le cose concrete della nostra esperienza ponendosi come realtà effettuale, come causa, cioè, sì immaginata ma i cui effetti sono assolutamente concreti, le cui azioni sugli uomini e sulle cose hanno una materialità indiscutibile; se l’immaginario, cioè, diventa un soggetto agente, se il pensiero può avvalersi di supporti esterni a se stesso, cosa che è sempre accaduta, ma che adesso riesce a fare con una forza elaborativa e con potenzialità comunicative, collaborative così marcate da indurre a ridiscutere la soglia stessa che divide interiorità con esteriorità; se ciò che l’uomo ha fatto da sempre (dalla scrittura del paesaggio umano al paesaggio dei pensieri) oggi può disporre di tecnologie tali da confondere i confini che hanno distinto tradizionalmente immaginario da reale, dove è finita, dove finirà allora la nostra meravigliosa libertà di pensare l’impossibile? Potremo ancora pensare l’infinito, ciò che appare illogico, contraddittorio, incomprensibile? L’espansione così forte (scrittura/lettura) dei testi del nostro sistema neuronale all’esterno sarà un’occasione meravigliosa o una maledizione? Di certo, dovremo avere la capacità di cercare l’infinito fuori e dentro di noi, e non averne paura.” (La comunicazione generativa, Apogeo, Milano 20111, pp. 35-36).